Simone Weil, La persona e il sacro, ed. Adelphi
di Nereo Tiso
“In ogni uomo vi è qualcosa di sacro. Ma non è la sua persona. E neppure la persona umana. E’ semplicemente lui, quell’uomo”. Un libricino intenso, straordinario, che la filosofa ebrea convertita al cattolicesimo, scrisse nell’intento di esaltare la persona, non nella forma del personalismo tipicamente cattolica, ma della sacralità. Una ricerca profonda della verità senza la quale la persona stessa non sarebbe. Se da una parte critica il personalismo troppo intellettuale, dall’altra sconfessa il marxismo e Marx, votato alla negazione del soprannaturale. Simone Weil ritiene, invece, che l’aspirazione alta della persona nella sua sacralità non può essere che l’aspirazione al soprannaturale, alla verità e alla sua costante ricerca. Ella dichiara che “l’amore della verità si accompagna sempre all’umiltà” in un senso quasi mistico ma mai distaccato dalla realtà che ritiene fondamentale per accedere alla verità. L’umiltà diventa quasi umiliazione, come un arco di trionfo, il giogo del proprio annientamento estremo, unica via per arrivare alla verità. Ma questo annientamento non è una violenza masochistica, bensì un atto d’amore per la verità. Essa è bene, amore, bellezza, giustizia. E se le istituzioni hanno un senso, scrive ancora Simone Veil, lo hanno per “abolire tutto ciò che nella vita contemporanea schiaccia le anime sotto l’ingiustizia le menzogna e la bruttezza” . In sostanza per fare il bene degli uomini. Essere uomini per Simone Veil, in definitiva, è una sorta di rilettura della lettera a Diogneto in cui l’uomo che vive nel tempo non sarà veramente uomo finché non sarà oltre il tempo, nella bellezza assoluta, nella verità, in Dio.