Scuola: troppe parole in più
In questi giorni è arrivato un uragano: l’uccisione di Giulia Cecchettin da parte del su ex fidanzato, la famiglia che vive nel dramma per la morte della figlia. Filippo Turetta, l’assassino che, forse, sta ripensando a ciò che ha commesso, speriamo anche consapevole di ciò che gli aspetta. I suoi genitori che vivono l’altro dramma, quello di avere un figlio assassino. Il tempo ci aiuterà a capire. In questo turbinio di informazioni ed emozioni, non poteva mancare un pensiero alla scuola.
Uno dei pensieri che vengono subito dopo i drammi perché c’è la voglia di trovare una ragione, una causa al dramma. Ma anche un tentativo di dare una risposta alla coscienza dei molti che scoprono di avere chiaro che la scuola sia effettivamente il, o almeno uno, dei sistemi educativi che possono essere in grado di trovare strumenti, risposte e, perché no, soluzioni ai drammi. Quindi ecco le proposte che arrivano, idee che si incrociano alle quali la scuola deve rispondere se non, almeno, interrogarsi se non, adeguarsi. Educazione sentimentale, la prima idea: un’ora la settimana per tre mesi nelle scuole superiori. Oppure, altri, educare ai sentimenti, al rispetto contro la cultura tossica “patriarcale”. Cose sensate, ma di chi, e vorrei scusarmi, la scuola l’ha vista molti anni fa, quando la frequentava. Come se la scuola fosse rimasta ferma, immobile e tutti fossero presi dall’ossessione esclusiva del nozionismo informativo.
Ma la scuola, la comunità di studenti, docenti, famiglie e personale, ha l’obbligo, non solo curriculare ma in quanto scuola, di tradurre il suo compito in strumenti educativi e formativi per gli alunni. Proviamo a fare qualche esempio. A scuola vuoi non inserire l’educazione all’ambiente, oppure il primo soccorso, i diritti dell’uomo, il volontariato, le malattie sessualmente trasmissibili, la visita andrologica per i maschi, l’attenzione per le malattie femminili e la loro prevenzione, l’educazione stradale da parte della Polizia Locale, educare all’uso dei social e ci mancherebbe, l’educazione all’affettività e via dicendo.
Poi, ricordo che, dato che a scuola bisognerà pur “insegnare” qualcosa, quindi: un po’ di storia perché questi vivono senza sapere il loro passato, un po’ di italiano altrimenti scrivono come le galline, un po’ di inglese perché il mondo gira così, poi l’informatica senza discutere, la matematica per evitare che perdano quel po’ di logica che hanno; poi un po’ di diritto perché non possono rimanere ignoranti almeno sulla Costituzione, un po’ di economia perché là fuori meglio non lasciarsi fregare, anche qualche pillola di scienze e astronomia per evitare che il sole continui a girare attorno alla terra, e in più qualcosa di geografia così, almeno, sanno che Madrid non è solo un viaggio in aereo senza sapere se si trova in Spagna o da qualche altra parte. Ricordo che la scuola è anche esame di maturità, preparazione all’Università e al lavoro.
In tutto ci sono gli insegnanti. La passione per il proprio lavoro non è solo avere un cumulo infinito di conoscenze da proporre, ma una capacità di proporsi, di dare sempre e solo modelli educativi e strumenti formativi. Ci sono prove negative e positive, che aiutano a scalare montagne, a cadere e rialzarsi, a vedere che chi sta di fronte e di fianco come un altro o un’altra con cui camminare. Riconoscere che domani sarà un’altra sfida con se stessi, un altro giorno in cui rimescolare speranze e illusioni, amori nati e finiti, delusioni e gioie. A scuola non nascono mostri, assassini, a scuola si fa il possibile e anche l’improbabile per lavorare insieme agli studenti perché siano liberi, imparino a pensare, rispettare, riconoscere nell’altro un altro se stesso a prescindere dal sesso, dalla religione e dalla provenienza e a decidere sempre per il bene. Si parla con le famiglie che qualche volta navigano in mezzo al mare in burrasca della vita, perché hanno bisogno solo di parlare. Non so se tutto ciò sia educazione al “sentimento e all’affettività”. Io penso di sì. Anzi, molto di più.