“La guerra della lingua” – E. Lombardi Vallauri
Ho letto il libro di Edoardo Lombardi Vallauri , un esperto linguista, dal titolo: “Le guerre per la lingua”. Fa una serie di analisi nell’uso di termini che, talvolta, sono entrati nel linguaggio comune e quindi non ci si accorge di pronunciarli, altri, invece, saltano subito all’orecchio. Fa molti esempi e cerca di dire quando il linguaggio viene modificato con rispetto e senso e quando, un po’ meno. Parla degli “anglismi”. Molte parole che pronunciamo in Italia, sono di origine inglese e ormai sono diventate di uso comune: computer, meeting, software, budget, lockdown e via dicendo. Nessuno si scandalizza molto anche se ci sono parole italiane che le possono sostituire con facilità. Altre sono anche di origine francese, anche se ce ne accorgiamo meno: garage, menù, mascotte, naïf ecc. Molti non le sopportano perché vanno a travisare la nostra lingua, ma esiste una familiarità, soprattutto con l’inglese, della quale non si può fare a meno.
Affronta però anche il tema del “sessismo” o quello che viene chiamato linguaggio di genere. Vallauri non ritiene che la lingua sia un totem immodificabile, ma la modifica va valutata e mai imposta. Valutata soprattutto da esperti per evitare forme di tipo ideologico. Libero chi decide di pronunciare alcune parole per sé e non decide anche per gli altri, dice ancora Vallauri. Il rapporto tra il genere maschile e quello femminile può trarre in inganno in cui anche l’uso del femminile sia un obbligo. Dire “direttore o direttrice d’orchestra”, “avvocato o avvocata” se una donna vuole essere definita nel suo ruolo o professione col termine maschile, non cambia la sostanza e non discrimina, dice sempre Vallauri. La discriminazione non sta nella lingua in sé ma nell’uso che se ne fa. Tra l’altro, l’utilizzo del “maschile” nella nostra lingua, viene usato per la “neutralizzazione di genere”, cioè né maschile né femminile ma entrambi. Dire “i miei cugini” mette assieme sia maschi che femmine, dire “le mie cugine” si indicano solo le femmine.
Quindi il maschile “marcato” è un meccanismo economico della lingua e si estende alla non indicazione di genere per comprenderli entrambi. Questo non vuol dire che l’uso di magistrata, avvocata, sindaca sia sbagliato ma non declinarlo al femminile non è discriminatorio. Quindi, dice ancora Vallauri, anche l’uso di termini “Buongiorno colleghe e colleghi, avvocati e avvocate, studenti e studentesse” cioè ripetizioni di categorie è una “discutibile ostentazione di presunta correttezza”. Usare il maschile non è sessismo e non discrimina.
E infine, l’uso della schwa (ə rovesciata) o del segno * per evitare di indicare il genere. Liberiamo subito l’asterisco. È un segno come molti altri .,:; e non si pronuncia. Quindi utile solo per chi lo scrive. La schwa la si trova in molte lingue. Chi la usa nella nostra lingua lo fa per evitare di indicare il genere. Ancora il nostro autore afferma che, per avere senso, dovrebbe essere utilizzata per tutte le parole. Invece viene utilizzata solo per alcune parole ideologicamente connotate. Quindi i casi più facili che riguardano gli umani, enfatizzati, di fatto inapplicabili nel nostro sistema linguistico. In sostanza, schwa potrà applicarsi solo da chi ritiene di attirare l’attenzione sui danni del sessismo. Ma questo ha poco o nulla a che fare con la nostra lingua. Vallauri, poi, non parla della vocale “u” usata da qualche buontempone al posto di * e di schwa. Ma c’è tempo per un altro libro.