Francesco Jori, Caporetto. La grande Battaglia, Ed. Biblioteca dell’immagine 2017
Ad ottobre 2017 ricorreva il centenario della tristemente famosa battaglia di Caporetto. La disfatta del nostro esercito in una battaglia che ha visto soccombere in maniera tragica e sotto ogni punto di vista, le armate italiane. Tra i molti che parlano dell’argomento, ho scelto quello di Francesco Jori: non solo descrittivo della battaglia, ma anche della tragedia di chi ha dovuto sopportare l’invasore.
All’inizio del libro, subito nella seconda di copertina, mi hanno colpito i numeri del bilancio della battaglia, un’autentica carneficina, che riporto pari pari: 10.000 morti, 30.000 feriti, 265.000 prigionieri. Praticamente 700.000 perdite in pochi giorni. A ciò si aggiunge il materiale bellico: 3152 pezzi di artiglieria, 1732 bombarde, 3.000 mitragliatrici¸ e ancora: 316.000 cappotti, 486.000 giubbe, 439.000 pantaloni, 143.000 zaini, 320.000 paia di scarponi, 1,3 milioni di capi di biancheria, 185.000 coperte, 40.000 cucine da campo, 5 milioni di scatolette di carne, 70.000 scatolette di salmone, 13.000 quintali di pasta, 7.000 quintali di riso, 2.500 quintali di caffè, 4.700 quintali di zucchero, 6.500 quintali di formaggio, 36.500 quintali di gallette, 5.000 ettolitri di vino, 73.000 cavalli e muli, 1600 automezzi, 32 locomotive, 840 carri, 88 ospedali da campo. Quando si dice un esercito e quando è evidente una colossale disfatta.
Jori sottolinea le scelte strategiche di Cadorna, poi rimosso per affidare l’incarico al generale Armando Diaz; e poi Badoglio, il generale presente anche nella seconda guerra mondiale; il generale del monte Grappa, Giardino. Quindi strategie sbagliate, scontri inutili, messaggi errati; e poi le inutile e continue fucilazioni dei propri sottoposti come deterrente e dimostrazione di forza; la propaganda militare che stentava. Ma nulla poté nascondere la disfatta e la umiliante ritirata. Tanto da chiamare al fronte anche i ragazzi del ’99 i quali, dopo un sommario addestramento, vennero mandati in battaglia.
Ma da tutto ciò scaturiva non solo la ritirata e la riorganizzazione sul Piave, ma aver lasciato allo sbando, nel vero senso del termine, oltre ai soldati, una popolazione allo stremo, città senza guida, paesi dispersi tra le montagne senza più nulla. Una lettura che mostra come la politica, gli amministratori dei territori occupati, abbiano preferito la fuga piuttosto che rimanere tra la loro gente che era rimasta a guardia del proprio nulla. Tutto era stato confiscato: animali, grano, sementi, patate. Tutto per l’invasore e non solo, era utile per mantenere potere ma, soprattutto, per soddisfare la fame delle truppe.
Gli unici, senza aver bisogno di ordini superiori a rimanere vicini ai loro fedeli a rischio della loro vita furono gli uomini di chiesa, i preti. Nel dramma, anche solo la vicinanza era fondamentale. I morti per fame, in alcune zone arrivarono al 20% della popolazione. Il dramma durò per circa un anno finché le battaglie sul monte Grappa, ad Asiago, nel trevigiano e sulla linea del Piave, non portarono alla conclusione della guerra, chiamata “Grande”, se una guerra può essere considerata. L’analisi storica di Jori, mostra anche l’assurdità di certi comportamenti chi si trovava al fronte e doveva, forse non più tornare; dei comandanti che, di fronte ai loro errori arrivarono al suicidio. Di chi, per un a banalità, poteva essere fucilato. Una catastrofe quella di Caporetto che, per qualcuno, fu anche una svolta per l’Italia. Mai più!